Oggi non ho potuto noleggiare una bicicletta Dott a Roma perché il Comune ha sospeso per sette giorni il servizio di bikesharing di questa azienda. Nelle due settimane precedenti è stato il servizio di Lime a essere sospeso. Il motivo è il mancato rispetto degli impegni offerti dagli operatori selezionati sulla base di un bando dell’amministrazione della Capitale. Oltre alla sospensione del servizio, sono state elevate anche multe molto salate.
La mia personale lettura di questo episodio è che non si tratti solo di una questione romana, ma di uno dei tanti segni di difficoltà che sta attraversando il settore della sharing mobility in questi ultimi tempi.
Ancora oggi, la presenza dei servizi di sharing nelle città italiane si regge sull’enorme equivoco che questo tipo di servizi possa essere offerto in condizioni di libero mercato perseguendo, allo stesso tempo, anche obiettivi sociali e ambientali. Le due cose non si escludono necessariamente, ma per chiunque conosca un poco i trasporti, questa è una condizione assai rara. Non è un caso che esistano i cosiddetti “obblighi di servizio pubblico”. Per fare un esempio concreto, l’autobus che mi porta al mattino in ufficio è disponibile perché a) il Comune di Roma ritiene necessaria questa linea e b) il 65% dei costi per effettuarla sono coperti da contributi pubblici. In mancanza di queste due condizioni, quella linea non esisterebbe o la pagherei circa 5 euro a corsa.
D’altronde tutti i servizi di trasporto pubblico si reggono su un principio base: se il mercato, da solo, non garantisce che alcuni servizi essenziali siano effettuati, è necessario l’intervento pubblico. E le possibilità sono due: sussidiare o garantire un diritto di esclusiva.
Per molti anni, invece, la maggior parte dei servizi di sharing mobility è stata offerta da operatori privati senza contributi pubblici e senza diritti di esclusiva, se non molto blandi. Le amministrazioni locali hanno comunque fornito una propria cornice regolatoria, mantenendo una posizione di sostanziale laissez-faire.
Con l’arrivo delle biciclette in free floating nel 2017-18 e ancora di più con i monopattini dal 2020 in poi, le condizioni sono cambiate. Le amministrazioni locali, per regolare una presenza giudicata da molti come un disastro, hanno imposto delle condizioni sempre più severe per l’uso di questo tipo di veicoli.
A Roma, per esempio, sono stati stabiliti degli standard di “densità areale” per zona. Non solo si è stabilito che per motivi di sicurezza e decoro fosse necessario limitare la presenza di biciclette e monopattini nelle zone monumentali e turistiche della Capitale, ma si è anche deciso di assicurare una data densità di veicoli nelle zone periferiche. A questo si è aggiunto il fatto di assicurare la gratuità – o un forte sconto sul servizio – per gli abbonati Metrebus.
Ora, a parte le condizioni di sicurezza e decoro, che però riguardano, chissà perché, solo questa categoria di veicoli, cosa sono queste condizioni se non degli obblighi di servizio pubblico? Sono sostenibili economicamente per gli operatori? Forse sì, visto che sono state accettate in sede di selezione (una specie di diritto di esclusiva dedicato a tre operatori), forse no, visto che queste condizioni oggi non sono rispettate e che le tariffe applicate agli utenti nell’arco di pochi mesi siano cresciute visibilmente.
Personalmente credo che si tratti di fare una scelta chiara: o i servizi di sharing non sono considerati essenziali per una città, per cui non si attribuisce nessun tipo di obbligo di servizio ed è il mercato a stabilire dove e come sono organizzati, oppure si considerano servizi essenziali e vanno trattati alla stregua di tutti gli altri servizi di trasporto pubblico, anche se con i dovuti adattamenti, tenendo conto della loro specifica natura.
Credo che la prima ipotesi presupponga limitate applicazioni concrete, per molti motivi, tra cui la disciplina della sosta su strada dei veicoli in sharing. La seconda presuppone un aggiornamento del quadro legislativo e uno stanziamento di risorse pubbliche che deve essere certo e stabile.
Non si tratta di inventarsi niente, in realtà. In alcune città italiane, è prassi da ormai alcuni anni affidare la gestione dei servizi di sharing mobility tramite contratti di servizio. Si stabilisce come debba essere effettuato il servizio (aree interessate, numero di veicoli disponibili, etc.) e si dà un contributo all’operatore, in alcuni casi anche attraverso lo strumento dei buoni di mobilità. Si tratta di somme di ordine di grandezza largamente inferiori a quelle dei servizi di trasporto pubblico tradizionalmente intesi, compatibili anche con le nostre disgraziate finanze pubbliche.
Quel che manca, in realtà, è la convinzione che i servizi di sharing mobility possano contribuire a costruire un modello di mobilità alternativo a quello dell’auto (di proprietà). Anche chi non è pregiudizialmente contrario alla sharing mobility continua a sottovalutare un aspetto chiave: per abbandonare la propria auto o, comunque, per usarla di meno, è necessario avere a disposizione un ventaglio di soluzioni di mobilità diverse, che vadano dal treno al monopattino in sharing, passando per taxi e servizi a domanda.
Non si tratta, dunque, di intendere i servizi di sharing mobility come una soluzione “stand alone”, in competizione con altre mobilità condivise o attive. Si tratta invece di vedere la complementarità e l’integrazione tra mobilità. Questo accade, per esempio, quando si arriva a destinazione dopo un viaggio in treno, utilizzando un taxi, un autobus o una bicicletta. Ma accade anche quando diverse mobilità sono combinate nell’arco della nostra quotidianità. In altre parole, quando ci si abitua a muoversi in tanti modi diversi in funzione delle proprie esigenze di spostamento, cosa ben diversa dal muoversi sempre e comunque col proprio mezzo di trasporto.
In conclusione, quanto sta accadendo a Roma evidenzia che il modello di governance della sharing mobility e della sua integrazione con altre mobilità condivise è ancora lontano dall’aver trovato un assetto ottimale. Solo un quadro legislativo aggiornato, accompagnato da un impegno finanziario da parte delle amministrazioni pubbliche, potrà garantire la sostenibilità economica di questi servizi e massimizzare il loro potenziale come parte integrante di una mobilità urbana più efficiente e sostenibile.